L’aiuto al suicidio nell’opera di Enrico Ferri (1856-1929)

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L’aiuto al suicidio nell’opera di Enrico Ferri (1856-1929)

Roy Garré

Attualità e limiti del suo pensiero

Il tema dell’aiuto al suicidio ha un posto di primo piano negli studi di Christian Schwarzenegger. Basti consultare la ricca bibliografia che si trova nel Commentario basilese (Schwarzenegger/Stössel, in: Niggli/Wipprächtiger [ed.], Basler Kommentar, Strafrecht I, 4. ediz., Basilea 2019, Vor art. 111 CP, 2454 e segg.) per rendersene conto. Si tratta del resto di un tema dal quale, come penalista, è difficile sottrarsi e che suscita sempre ampi dibattiti, evocando dilemmi di tipo etico, filosofico, religioso, medico (notevoli a questo proposito le riflessioni di Veronesi, Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza, Milano 2005), prima ancora che di tipo giuridico. Certo il punto di partenza da cui in Svizzera prendiamo le mosse è per molti versi semplice: «Chiunque per motivi egoistici istiga alcuno al suicidio o gli presta aiuto è punito, se il suicidio è stato consumato o tentato, con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria». Così recita l’articolo 115 del Codice penale svizzero. Nella sostanza si tratta di una formulazione già presente nella versione originale del Codice approvato in votazione popolare il 3 luglio 1938 ed entrato in vigore il 1. gennaio 1942. Oggi come oggi, in tempi caratterizzati da un attivismo legislativo che ha fatto del Codice penale un cantiere permanente, è sicuramente rimarchevole la longevità di una norma come questa, destinata a disciplinare, accanto alla fattispecie dell’omicidio del consenziente giusta l’articolo 114, una materia così delicata come l’eutanasia. E questo sulla base di riflessioni sviluppate da Emil Zürcher (1850-1926; v. Schweizerisches Strafgesetzbuch, Erläuterungen zum Vorentwurf vom April 1908, Berna 1914, 121 e segg.), confluite nel messaggio del Consiglio federale del 23 luglio 1918 (BBl 1918 IV 1, 31-32), che meglio calibrava gli art. 51 e 52 dell’avamprogetto di Carl Stooss (1849-1934; v. Schweizerisches Strafgesetzbuch, Vorentwurf mit Motiven, Basilea/Ginevra 1894, 148), in tempi in cui non si poteva certo presagire la nascita di organizzazioni come Dignitas o Exit, che hanno rivoluzionato il concetto stesso di aiuto al suicidio, senza però che le riflessioni dei padri intellettuali del nostro Codice abbiano perso di attualità e pregnanza. Al centro del presente contributo non ci sono tuttavia le riflessioni di Stooss e di Zürcher, ma quelle del coevo penalista e criminologo italiano Enrico Ferri (1856-1929), che proprio sull’aiuto al suicidio scrisse un’importante opera, per molti versi di ancora grande attualità.

Prima di addentrarci in essa è opportuno richiamare alcuni aspetti della biografia intellettuale di Ferri, recentemente definito da Carlotta Latini «un giurista eretico» (Storia di un giurista «eretico». Il diritto e il processo penale nel pensiero di Enrico Ferri, Napoli 2018).

La vita e l’opera di Enrico Ferri

Allievo di Cesare Lombroso (1835-1909), di cui conosciamo per altro l’importante influsso anche su Emil Zürcher (v. Holenstein, Emil Zürcher [1850-1926] – Leben und Werk eines bedeutenden Strafrechtlers, tesi, Zurigo 1996, 264 e segg.), Enrico Ferri non fu attivo soltanto come studioso di criminologia, ma anche 95 come parlamentare, giornalista e soprattutto avvocato penalista. È stato direttore dell’Avanti!, il quotidiano del Partito socialista italiano, partito di cui è stato altresì segretario, per un breve periodo nel 1896 e poi dal 1904 al 1906. In ambito criminologico è considerato uno dei fondatori della scuola positiva, di cui la rivista omonima (La Scuola positiva nella giurisprudenza civile e penale e nella vita sociale) da lui stesso creata nel 1891 assieme a Lombroso, Raffaele Garofalo e Giulio Fioretti, fu un importante canale di diffusione (v. Colao/Ferri, in: Birocchi et al. [ed.], Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), vol. 1, Bologna 2013, 850). Nel 1919 fu incaricato dal Ministro della giustizia Ludovico Mortara di presiedere una commissione per la preparazione di un nuovo Codice penale, destinato a sostituire quello del 1889, meglio noto come Codice Zanardelli. Pur avendo portato a termine il suo compito con un Progetto preliminare di codice penale italiano per i delitti, pubblicato nel 1921 e corredato da una sua personale Relazione, egli non ebbe fortuna nella concretizzazione legislativa, visto che tutto si fermò al mero stadio progettuale. Miglior fortuna avrà la sua partecipazione alla commissione nominata dal Ministro Alfredo Rocco, da cui l’omonima codificazione del 1930, ancora oggi in vigore, nella quale tuttavia le istanze positiviste del progetto del 1921 furono solo limitatamente riprese (v. Colao, op. cit., 851-852). La parte finale della vita di Ferri fu purtroppo macchiata dal sostegno al regime fascista, che lo portò nel 1929, poco prima dunque della sua morte, ad essere nominato senatore dallo stesso Benito Mussolini, ma che si era già manifestato nella pubblicistica (v. ad es. Socialisti nazionali e il governo fascista. Programma del partito, Roma 1923) ed in generale nella sua azione politica. Della sua vasta produzione scientifica vanno perlomeno citate le Difese penali (2a ediz., Torino 1923), i Principi di diritto criminale (Torino 1928) e la Sociologia criminale (2a ediz., Torino 1929). Visto il tema del presente contributo è però una in particolare l’opera su cui è necessario concentrarsi: L’omicidio-suicidio.

L’opera «L’omicidio-suicidio»

Di quest’opera sono attestate cinque edizioni. Lo studio è apparso per la prima volta nel 1883/84 nell’Archivio di psichiatria, in poche centinaia di estratti. Qui si utilizzerà e citerà l’ultima edizione, pubblicata a Torino nel 1925 unitamente alla seconda edizione de «L’omicida nella psicologia e nella psicopatologia criminale». Come scrive giustamente Carlotta Latini, «a dispetto di chi ritiene che il problema della fine della vita sia una questione tutta attuale, qualcuno direbbe postmoderna, tipica dell’evoluta società tecnologica di oggi, Enrico Ferri si cimenta con la questione con la consueta capacità visionaria» (Latini, op. cit., 54). Gli spunti di riflessione che Ferri offre anche per il dibattito odierno sono in effetti innumerevoli. La domanda fondamentale da lui affrontata è quella di sapere se l’uomo ha diritto di disporre della propria vita con o senza l’intervento di terzi.

Il diritto alla vita rientra per lui tra i diritti innati o inalienabili, anche se sulla distinzione tra diritti innati e diritti acquisiti mantiene una posizione critica, perché un diritto innato, come appunto quello alla vita, se non fosse riconosciuto dalla società non avrebbe in ogni caso rilevanza (v. pp. 474-499). La parte iniziale dell’opera è così dedicata al diritto/dovere di vivere. Su questo punto Ferri è categorico: come l’uomo ha diritto di vivere ha di conseguenza anche diritto di morire e la società non può imporre all’uomo l’obbligo giuridico di restare in vita. Questo non è per lui un sintomo di abbruttimento o indifferenza della società rispetto ai soggetti deboli, malati o bisognosi di cure: occorre anzi prevenire le cause sociali di alcuni mali e migliorare i livelli e le condizioni di vita di ciascuno, andando alla radice del problema. In filigrana si legge in questo la sua sensibilità politica di stampo socialista e la conseguente attenzione ai risvolti sociali di qualsiasi fenomeno criminale.

Poste queste premesse, Ferri affronta la questione del consenso alla propria uccisione, concentrandosi da un lato sul valore giuridico 96 di detto consenso e dall’altro sulla qualità dei motivi che, a fronte di detto consenso, hanno indotto un terzo a contribuire al piano suicida. Spontaneo, per un giurista svizzero, raffrontare quest’ultimo elemento al contenuto sia dell’art. 114 che dell’art. 115 CP e quindi ai «motivi onorevoli» ed alla «pietà» della fattispecie soggettiva dell’omicidio su richiesta della vittima, nonché ai «motivi egoistici» dell’istigazione e aiuto al suicidio. Partendo dal presupposto che l’uomo ha diritto di disporre della propria vita, per Ferri, chi uccide un altro con il consenso della vittima non è responsabile se, oltre al consenso in quanto tale, ha dalla sua anche un motivo giuridico e sociale rilevante (v. p. 508). Precisato che la maggior parte dei penalisti italiani dell’epoca era contraria ad ammettere la liceità dell’eutanasia, confermando la dimensione «eretica» ben evidenziata da Carlotta Latini, Ferri ritiene che chiunque uccide il consenziente non sia giuridicamente responsabile se non agisce per motivi antisociali. A prescindere dunque dall’estensione al penale del principio privatistico volenti non fit iniuria, egli insiste sulla natura dei motivi che guidano l’autore. A differenza della soluzione adottata in Svizzera egli non distingue tuttavia fra «omicidio del consenziente» e «aiuto al suicidio», dato che in entrambi i casi «lo Stato non perde un’esistenza valida ed utile alla collettività, perchè è un’esistenza che ha perduto l’istinto naturale della conservazione, e quindi del proprio sviluppo fisio-psichico, e non la perde per l’azione di un delinquente, la perde perchè egli e chi lo aiuta al suicidio si trovano in tale condizione da suscitare la pubblica commiserazione, anzichè la pubblica repulsione» (p. 515); poco importa dunque chi agisce, chi compie l’atto definitivo che porta alla morte: l’assenza di motivi antisociali comporta l’impunità sia dell’uccisore sia di colui che aiuta l’altro a suicidarsi.

«Enrico Ferri si cimenta con la questione con la consueta capacità visionaria»

(Carlotta Latini)

Sappiamo invece che il nostro diritto insiste su questa differenza fondamentale: chi ha la padronanza dell’atto? Se si tratta del suicida si applica l’art. 115 CP; se si tratta di un un’altra persona si applica l’art. 114 CP, e in quest’ultimo caso, anche se i motivi sono onorevoli, il comportamento è punito con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria. Non è certo un reato della stessa gravità dell’omicidio ex art. 111 CP (punito con una pena detentiva minima di cinque anni) ma è comunque un reato. In questo Ferri è invece radicale: «la morte volontaria non [è] giuridicamente illecita, perchè l’uomo può disporre della sua esistenza e […] quindi il suo consenso discrimina ogni atto di chi, concorrendo in qualunque modo a questo esito finale della sua morte, non sia determinato da motivi immorali, illegittimi ed antisociali» (p. 539). Ed insiste: «fra l’amico che solo per pietà uccide l’amico, condannato da malattia inesorabile, cedendo alle sue preghiere insistenti, e colui che non uccide, ma con false notizie e perfide suggestioni istiga altri al suicidio, per frodarne un’eredità o liberarsi da un obbligo, c’è un abisso morale e giuridico» (p. 554). Tutto ruota attorno ai motivi dell’atto e non alle sue modalità oggettive di esecuzione: «[…] se chi agisce dietro consenso e richiesta del suicida è mosso soltanto da sentimenti di pietà e di affetto, di solidarietà umana (che sono sentimenti utili alla specie, come l’onore e l’amore), per lui viene a mancare qualsiasi responsabilità penale per la duplice, inseparabile ragione e del consenso del paziente e dei motivi che lo determinarono alla sua azione» (p. 516). Gli esempi classici portati da Ferri sono quelli del soldato che finisce il suo compagno agonizzan- 97 te, o quello di chi procura il veleno all’amico gravemente malato, nella consapevolezza che non vi sia nessuna speranza di guarigione. È chiaro che tutto ciò sembrerebbe avere poco a che vedere con le situazioni di cui si dibatte oggi in Svizzera attorno all’attività di organizzazioni quali Exit o Dignitas, ma a meglio guardare la differenza è piuttosto quantitativa che qualitativa. Ovviamente né Ferri, né Stooss, né Zürcher potevano immaginare gli sviluppi del fenomeno negli ultimi decenni, ma ciò non toglie che anche oggi si insiste su questi due presupposti fondamentali: 1) il consenso del suicida; 2) le motivazioni di chi presta aiuto rispettivamente compie l’azione che conduce alla morte.

Quali spunti per la Svizzera de lege lata e de lege ferenda?

L’omicidio-suicidio di Ferri è un lavoro poderoso, scientificamente solido, ricco di richiami comparativi, filosoficamente stimolante. Il fenomeno è da lui descritto in maniera esaustiva (v. in part. 518-539 sulle forme principali di omicidio-suicidio). Inevitabile dunque chiedersi se, oltre ad essere interessante sotto il profilo della storia del diritto, possa offrire anche degli spunti de lege lata e de lege ferenda.

Per quanto riguarda la discussione de lege ferenda conosciamo le vicissitudini che hanno portato nel nostro Paese a rinunciare sia a rivedere le pertinenti disposizioni del Codice penale sia a emanare una legge sull’ammissione e sulla vigilanza delle organizzazioni di aiuto al suicidio. Si tratta di riflessioni molto serie ed approfondite che non è attualmente opportuno rimettere in discussione (v. comunque le valide considerazioni di Bondolfi, Alcune considerazioni etico-giuridiche sugli ultimi sviluppi del dibattito svizzero sulle pratiche «estreme» di fine vita, in Studia Patavina, 2010, n. 1, 327-342) e che in definitiva dimostrano l’alta qualità e la lungimiranza della soluzione a suo tempo pensata dai padri intellettuali del nostro Codice penale. Ma in fondo anche de lege lata non penso che la lettura dell’opera di Ferri ci indichi soluzioni interpretative direttamente applicabili. La legge è chiara e va preso atto che al di là delle critiche di Ferri alla differenziazione fra omicidio del consenziente e aiuto al suicidio, anche già soltanto a livello emozionale è inutile negare che un conto è aiutare qualcuno a suicidarsi ed un altro conto è ucciderlo su sua richiesta, macchiandosi quindi personalmente le mani di sangue, se mi è permessa l’enfasi un po’ shakespeariana. Ridurre tutto ai motivi soggettivi e negare che ci sia comunque un antropologico tabu da superare prima di passare all’atto (non molto diverso da quello adesso ben rappresentato in tutti i più drammatici risvolti nella pièce di von Schirach, Terror, Monaco 2016) mi sembra problematico. È bene tuttavia che rispetto alla versione originale dell’art. 114 CP, che non nominava i motivi che portano all’uccisione del consenziente, l’attuale testo, in vigore dal 1. gennaio 1990 (RU 1989 2449; FF 1985 II 901), li nomini esplicitamente. Ciò non toglie che ci sia qualcosa di qualitativamente diverso tra colui che uccide per motivi onorevoli e colui che aiuta al suicidio per gli stessi motivi. A questo modo si ribadisce quella intangibilità della vita, di cui all’art. 10 cpv. 1 Cost., che certo può scontrarsi con la libertà personale di cui al cpv. 2 di questo medesimo articolo, ma che ci obbliga a portare il discorso ad un livello di costituzionalità democratica e liberale, forse non a caso destinata ad essere calpestata brutalmente proprio da quell’ideologia fascista cui Ferri aveva così acriticamente aderito. Certo quando scrisse «L’omicidio-suicidio» (perlomeno al tempo delle sue prime edizioni) non poteva presagire quello che sarebbe successo nella politica italiana del Novecento, ma è altresì evidente che nella sua opera la dimensione costituzionale del fenomeno era soltanto rudimentalmente abbozzata, ad esempio in considerazioni come questa: «se fosse vero che lo Stato ha un interesse ‘diretto e immediato’ all’esistenza di ogni cittadino, la conseguenza inevitabile sarebbe che l’emigrazione ed il suicidio dovrebbero essere proibiti e puniti. E così, infatti, fu per molti secoli, quando si ammetteva questo dominio assoluto dello Stato sull’individuo: ma nel mondo moderno 98 gli Stati riconoscono in ogni cittadino la facoltà o il diritto di emigrare e di suicidarsi, anche perché si sono persuasi che tenere per forza, nei propri confini o in vita, degli individui che – per le disgraziate condizioni di loro esistenza – non hanno più l’istinto di conservazione o quello di attrazione al luogo nativo, non costituirebbe un vantaggio per la società, pur prescindendo dall’impossibilità di impedire tali fatti» (p. 515).

Alla luce del «dominio assoluto dello Stato sull’individuo» che, con buona pace di Ferri, proprio l’ideologia fascista (ri)affermerà, amplificandone la portata in maniera ancora più sanguinaria con il nazi-fascismo, queste parole suonano non poco stonate e ci invitano a riflettere sull’importanza di ricondurre sempre il discorso non soltanto alla mera dogmatica giuspenalistica o al puro dato criminologico, ma anche ai valori fondamentali della democrazia liberale e dello stato di diritto. L’umana compassione che guida quest’opera manca di respiro costituzionale e in ciò se ne intravvedono i limiti: è più una (pur lodevole) pietas virgiliana (v. W. A. Camps, Introduzione all’Eneide, trad. ital., Milano 1973, 37-44) che un afflato etico-giuridico centrato su quella dignità umana, da noi evocata all’art. 7 Cost. ma presente in tutte le più moderne costituzioni democratiche e liberali, oltre che nel Preambolo alla Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, baluardo ancora oggi fondamentale contro qualsiasi forma di «dominio assoluto dello Stato sull’individuo».

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